FACCE DA CINEMA.
Una grande mostra dell’archivio storico Luxardo
I ritratti dei protagonisti del mondo della celluloide, fotografati da Elio, Elda e Aldo Luxardo rievocano gli anni mitici del dopo guerra fino alla Dolce Vita.
3 novembre 2008 – 11 gennaio 2009
Chiostro del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia “Leonardo da Vinci di Milano
I primi piani, per solito, sono i punti culminanti in cui si rivela il carattere del personaggio. E nel primo piano i capelli occupano uno spazio enorme: ogni ricciolo acquista potere espressivo. Ogni ricciolo dunque deve essere calcolato e misurato, come in una scultura o in una pittura. Neanche un capello può essere lasciato al caso. E anche se l’artista incarna un tipo disordinato, negletto, sbarazzino, questo disordine, negletto, sbarazzino, questo disordine, perché non offenda il pubblico e non paia invece trascuratezza di messa in scena, deve essere un disordine calcolato e misurato…”. Con queste parole Mario Soldati descrive il backstage, il lato invisibile, monotono, faticoso e ripetitivo del lavoro di una diva, nel 1935 (24 ore in uno studio cinematografico). Dive luccicanti, patinate, perfette e irraggiungibili, da rivista che fa sognare sartine e dattilografe di un’Italia ancora poco toccata da quella che comunemente si chiama “cultura del moderno”. Un’Italia al femminile ancora tutta coperta dal “grembiale”: nelle campagne, a scuola, negli orfanotrofi, in fabbrica, in ufficio, nelle paludi e da lì sugli altari. E scuole, orfanotrofi, fabbriche, uffici e paludi sono anche alcuni dei set cinematografici che contendono il posto agli interni lucidi e metallici, setosi e luccicanti del primo cinema italiano, dei film che allora si chiamavano “ungheresi”. Un’Italia in cui solo la diva del cinema dei telefoni bianchi sostituiva all’uniforme del lavoro lussuose vestaglie di raso e tailleurs di sogno. I profumi, come la moda, in quegli anni erano solo francesi, ma dalle pagine di “Domus”, blasonata rivista di architettura diretta da Giò Ponti, tra la pubblicità dei nuovi “frigoriferi elettrici” e dei mobili da giardino, faceva capolino la reclàme di un profumo che si chiamava Come tu mi vuoi e aveva sull’etichetta la faccia di Greta Garbo (e forse il copy era Pirandello). Nelle stesse pagine Alberto Lattuada, architetto studente del Centro Sperimentale, teneva un suo Quadernetto del cinema, aggiornato - nel 1938 - sulle nuove attrici (Vera Zorina, Carole Lombard), sui film che avevano suscitato “scandali rumorosi”, o sul grande regista francese Duvuvier. Anche Soldati, lo scrittore di cui parlavamo, maneggiava personalmente la materia. Con una di quelle dive, anzi, amate dagli artisti e dai collezionisti ci sembra fosse stato anche brevemente fidanzato. Le 24 ore che il Soldati letterato dedica al cinema - prima di cedergli, come regista - i successivi quarant’anni - sono epicamente spiritose, un “diva’s day” da celebrare ogni anno, come quello dedicato a Leopold Bloom dai patiti della letteratura irlandese. Dopo il parrucchiere, il trucco. “Infilata nella mano sinistra come una vera e propria tavolozza, egli tiene la scatola dei ceroni, che è simile ad una normale scatola di acquerelli. Ci si vedono venti o trenta tondini, tutta una gamma dal bruno al rosso mattone, al rosa chiaro, al giallino. Più che un pittore, egli sembra un modellatore. Dapprincipio l’attrice siede immobile, inespressiva come una materia plasmabile. E’ il truccatore che a poco a poco, modellandola, le dà una forza, un’espressione, una vita, un carattere…”. Non paia strano parlare di facce, modellate, pettinate, truccate, splendenti, in una parola: belle, per dire delle facce da cinema di Luxardo. Un brand, un trademark, uno stile. La faccia Luxardo costituisce essa stessa un linguaggio ed il segno di un’epoca. Prima di tutto il bianco e nero: eccezionale, morbido dai grigi ben identificati come mai più sarà possibile realizzare… E poi la posa: ribalda di tre quarti, in modo che la luce trascorra senza intoppi da sinistra a destra e bagni pienamente i piani del volto, rendendoli lisci e torniti, quasi irreali. E ancora il luccichio, la perfezione dei dettagli, il cesello delle onde dei capelli (si guardi un irresistibile Rossano Brazzi) un surplus di perfezione. E infine il trucco, sotto i riccioli ben pettinati, il righino degli occhi lievemente all’insù, le labbra intense: nere perché in bianco e nero, ma di cui è persino facile indovinare la nuance. Il rosa se gli occhi sono molto truccati, il rosso intenso se gli occhi erano sottolineati solo da ciuffetti di ciglia arricciolati da un apposito strumento che invano si cercherebbe oggi nelle vetrine delle profumerie, il piegaciglia. Del resto era l’epoca dei maghi della luce nel cinema. Mai più ne avremmo vissuto una uguale. Le foto Luxardo frizzavano in un attimo e in un sorriso senza tempo tutto ciò che in contemporanea si svolgeva sugli schermi dei “cinematografi” di tutt’Italia. Mastroianni ancora più irresistibile del cronista Marcello Rubini che avrebbe aspettato in via Veneto la diva di turno bionda, alta, americana, in pelliccia, al braccio di un marito, americano e pugile, pronto alla scazzottata di prammatica (oppure era Walter Chiari). Il segno di un’epoca, si diceva, in cui passare per via del Tritone significava indugiare sulle foto degli attori della Luxardo, la prospettiva del cielo annullata dalla ragnatela dei fili dei mezzi pubblici, dai finestrini dei quali, schiacciate nella massa, generazioni di ragazze guardavano le vetrine dall’alto. Se i manifesti erano colorati, goffi, oleografici ed inventati (mai avresti trovato tal quale nel film, cercando, la scena rappresentata) nella loro perfezione i ritratti Luxardo coronavano gli speranzosi sogni di quanti - molti - studiavano facce e vita degli attori più delle materie di una scuola non ancora dell’obbligo. Sicuramente anche quelli della sposina che arriva dalla Sicilia in viaggio di nozze con la foto dello Sceicco Bianco nella borsetta, ignara di incontrarlo, di lì a poco sull’altalena tra i giganteschi pini di Fregene e tra le onde del mare. Al contrario delle foto: chiare, credibili, verosimili se non oggettive, nessuno avrebbe preso in considerazione i manifesti dei film prima di Rotella e dei nouveaux realistes in quegli anni, di passaggio dal Cinquanta al decennio successivo. Anni ingenui, bacchettoni, pieni di speranze e di cronaca nera (mai risolto il delitto Montesi che diventa lo specimen delle faide politiche all’interno del partito di maggioranza) di fotoromanzi e di bellezza. Povera, ma bella, ma quanto nobilitata dal linguaggio Luxardo!. Maurizio Arena, Renato Salvatori che avevano perso la loro aria di figli di mamma, trasteverina e pastasciuttara, per acquistare per lo meno quell’alone speciale, quello specifico luccicore della foto dell’attore. Perché lo stile Luxardo non sembrava concedere nulla alla psicologia: ai divi senz’anima ne forniva senz’altro una propria. Un’anima Luxardo, appunto, luccicante a cominciare dal nome. Lux…Ardo due sillabe luminose, concentrato di naturale e artificiale. Nel buio e nel nero delle facciate dei palazzi di via del Tritone dardeggiavano obliquamente gli occhi delle moderne divinità. Gassman torvo, cattivo e stupendo, la Ralli casareccia, la Lollo ipervestita, l’Allasio ingioiellata. Mentre nella sua satiresca solitudine Flaiano parla di via Veneto come di una spiaggia allietata dagli ombrelloni a righe dei caffè e rinfrescate dalle onde metalliche delle macchine (Cardarelli aveva forse da poco riposto il suo cappotto agostano al caffè de Paris), consegna anche al suo diario -giugno 1958 - parole che per noi rivestono uno specialissimo significato. “Sto lavorando” – scrive - “con Fellini e Tullio Pinelli, a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista. Fellini vuole adeguarla ai tempi che corrono, dare un ritratto di questa “società del caffè” che folleggia tra l’erotismo, l’alienazione, la noia e l’improvviso benessere (…) Il film avrà per titolo La dolce vita…”
Antonella Greco